POP CIRCUS – incontro con Michela, giocoliere del colore

Michela è nata il 5 agosto 1987 a Roma.Michela vive a Berlino in un mondo POP fatto di tigri, donne stelle e forme curve. Michela è un’artista dal carattere come le tonalità dei colori che utilizza: bianco, nero, rosa, rosso, avorio, giallo, oro e il turchese, un colore fondamentale per la sua arte.

 

Come ti sei appassionata al mondo dell’illustrazione?

Non mi sento molto vicina al mondo dell’illustrazione, nonostante il mio stile sia chiaramente vicino a quello di molti illustratori. Per quanto
non sia una grande fan delle etichette, una volta sono stata definita un’artista multidisciplinare e credo che la definizione centri molto bene
la mia identità, soprattutto in questo momento della mia vita. Disegno da sempre e quel bisogno di esprimermi è sempre stato presente. Di
recente i miei genitori mi hanno mostrato alcuni disegni di quando avevo 5 anni e il modo in cui usavo il colore già a quell’età mi ha impressionata moltissimo e allo stesso tempo mi ha fatto capire molte cose. Quando avevo 16 anni facevo moltissimi collage su tela, ritagliando pezzi di riviste che trovavo per casa. Ancora oggi non sono mai focalizzata su un medium, sarebbe impossibile. Dipingo, come disegno, come faccio ceramica, hanging wall tapestry, come porto avanti collaborazioni commerciali. Sono arrivata ad un punto di maturità artistica dove non mi frena più il concetto di limite nella mia produzione, ed è stato un traguardo molto importante per me.

 

Chi sono le figure che ti hanno ispirata nell’intraprendere questa professione?

Prima di laurearmi in Grafica presso lo IED di Roma, ho conseguito un’altra laurea in Scienze Politiche, sempre a Roma. Penso che gli anni di
Scienze Politiche siano stati fondamentali per la mia formazione visiva. Nonostante mi formassi su tutt’altro, non ho mai smesso di disegnare
su mille sketchbook e passavo tantissime ore su blog di visual art e fotografia. È come se avessi immagazzinato per anni input visivi nei miei occhi, finché non sono diventata abbastanza matura per avere una mia identità personale e tirare fuori un body of work forte e coerente con il
mio mondo. Ricordo quando a 19 anni un caro amico mi mostrò per la prima volta il lavoro di Parra, artista che è stato fondamentale per la mia evoluzione. I suoi soggetti pop e la sua capacità di usare pochi colori e creare scenari fantastici, a volte sintetici ma così pieni, così simile al mio modo di disegnare, ha fatto accrescere in me la sicurezza verso ciò che producevo.

 

Hai una tecnica molto colorata e pop che mi ricorda il mondo del collage, forse per l’utilizzo del colore a blocco, non è facile trovare il proprio tratto distintivo e tu ce l’hai, come hai sviluppato la tua identità artistica?

Non ci avevo mai pensato, ma credo che il tuo sia un collegamento molto interessante, visto che tutto cominciò dal collage su tela. Dopo l’università ho vissuto molto in giro, soprattutto a Londra, cercando di trovare la mia dimensione. Poi, per fortuna, nel 2013, ho avuto la possibilità di andare a lavorare a Hong Kong con uno studio reativo di ragazzi fortissimi di Roma, il The Moodit, per un progetto molto interessante. Hong Kong è stata fondamentale: è stato il luogo dove ho scelto la palette colore che uso ancora oggi e dove ho creato la mia prima serie, che ha cambiato la mia vita.

C’è una forte interazione tra forme e colori nelle tue opere, come la sviluppi, chi viene prima?

Soggetto e colore sono importanti esattamente allo stesso modo: i colori sono parte integrante e protagonisti delle opere. Sono profondamente innamorata dell’interazione che i colori della mia palette creano, e l’equilibrio finale tra di loro è per me essenziale. Ad esempio, nella stessa palette certi colori quasi mai toccano altri colori specifici, è il caso del giallo e del rosso. Se accade, come nei pattern, sono sempre bilanciati da un terzo colore che calibra l’effetto visivo. Tutto questo nasce in modo del tutto naturale, ma ho iniziato ad analizzare un pattern nel mio modo di comporre l’opera.

Cosa ti ha spinto a trasferirti a Berlino?

Visito Berlino da quando avevo 18 anni, più o meno. In questa città ho trascorso così tanti mesi prima di trasferirmici, che, quando finalmente 4 anni fa è successo, è stato un passaggio veramente naturale. A differenza di Londra, da dove sono quasi scappata, ho trovato facilmente la mia dimensione. Oggi come allora questa città mi ha dato la possibilità di avere un mio studio al Künstlerhaus Bethanien, sopratutto in termini economici quando ero ancora agli inizi e volevo concentrarmi solo sulla mia arte. Berlino mi ha concesso di esprimermi, maturare e crescere e le sarò per sempre grata. L’Italia mi manca chiaramente tantissimo, così come Roma e quella sua energia. Per fortuna la mia professione mi consente di girare moltissimo per il mondo per mostre, residenze e collaborazioni, quindi, per quanto mi riguarda, il viaggiare fuori casa – fuori Roma prima, fuori Berlino adesso – è un atto naturale e necessario per far muovere le energie intorno a me.

 

Ti senti in qualche modo vicina alla street-art?

Non mi considero una street artist nel senso più stretto del termine, ma ho avuto occasione di dipingere diversi muri negli ultimi anni. Per me la street art è tutto ciò che viene praticato nel contesto della strada. Il suo aspetto illegale non mi interessa, nonostante in passato abbia
disegnato diversi muri illegalmente tra Roma e Berlino. Ciò che mi affascina di questo linguaggio è il rapporto con il pubblico in generale,
e chiaramente un muro pubblico può interagire con moltissime persone, il che è molto stimolante da un punto di vista artistico.

 

Qual è l’opera più grande che hai realizzato?

L’anno scorso ho avuto la possibilità di partecipare a un Residency Program importante per la Cleveland Foundation, che mi ha portata
a Cleveland per tre mesi. Lì ho realizzato, come primo progetto di residenza, un muro pubblico di 45 metri di lunghezza e 6 di altezza
intitolato We Are All Made Of Stars: è stata una soddisfazione enorme visto che non mi ero mai cimentata con un muro così grande e desideravo da tempo realizzarne uno. Avere avuto quest’occasione nell’ambito di una residenza così importante ha sicuramente reso il tutto ancora più bello.

 

Cosa ti ispira?

Non c’è una cosa concreta quanto, forse, il concetto di una possibile costante evoluzione personale. Quasi tutti i miei lavori hanno diversi
livelli di lettura, dal più semplice, visivo, caratterizzato da composizione e colore, al più interiore, legato alle emozioni, che è chiaramente
quello su cui lavoro molto. Visualizzo moltissimo, come parte della mia meditazione quotidiana. È una tecnica che mi è stata insegnata
quando, a 16-17 anni, partecipavo a competizioni di atletica leggera in Italia e in Europa: la praticavo sempre 5-10 minuti prima dell’inizio alla gara. Visualizzare non è poi così diverso da immaginare, attività che è ovviamente alle radici della mia professione. È una pratica che si usa moltissimo nello sport, io l’ho estesa al resto della mia vita.

 

Che musica ascolti? Ti piacerebbe illustrare la cover di un album e di quale artista?

All’inizio del 2016 ero stata contattata dalla Capitol Records per realizzare la copertina del singolo di Beck, Dreams. Dopo diversi step,
alla fine è stato scelto un altro artista, ma sarebbe stato un sogno per me, soprattutto perché ho ascoltato molto Beck nella mia adolescenza e
sarebbe stato come chiudere un cerchio. Ho disegnato diverse cover per l’etichetta Life and Death, ma sono lavori in bianco e nero solo outline, che è poi come nascono tutte le mie opere. Se posso sognare in grande, mi piacerebbe disegnare una copertina dei Radiohead o dei Chemical Brothers. La copertina di We Are The Night dei Chemical è per me un masterpiece, tra l’altro ispirato a un’opera che ho visto dal vivo qui a Berlino, Things to Come di Herbert Bayer. Ultimamente sono un mix tra l’album Rose di ABRA e due dischi che non ascoltavo da tantissimo, Thirteen Tales From Urban Bohemia dei Dandy Warhols e Is the Is Are dei DIIV.

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