Il punto di vista di un Capa

L’intervista a Caparezza è stato un viaggio fra le sue prigioni e le sue radici. Quando risponde a una domanda Michele può tirare fuori di tutto, dalle teorie filosofiche sull’universo fino alla sua collezione di programmi per ragazzi degli anni ’70.

In un album in cui i temi sociali e politici sono meno presenti rispetto agli album passati. l’artista pugliese va alla ricerca di se stesso tanto da poter interpretare il suo album come un sogno sul lettino di uno strizza cervelli.

Andando a ritroso nella tua carriera, fra le varie tappe del tuo percorso c’è l’Accademia di Comunicazione, volevi fare il pubblicitario? Come hai capito che non era quella la tua strada?

Io vinsi una borsa di studio per andare lì, ma sbagliai perché l’indirizzo che scelsi fu art director e non copywriting e io non c’entravo davvero niente con la grafica, la manualità. Infatti al primo anno mi chiesero di cambiare e di studiare copywriting ma io rifiutai e proseguì come art director. Però anche quella esperienza mi è stata utile perché sentivo sempre parlare di creatività, creatività, creatività e così sono entrato in contatto con tante persone, tutte con delle passioni creative diverse. C’era il tipo appassionato di Warhol o quello amante delle poesie russe, quindi ho trovato terreno fertile per la mia curiosità. Certo, se avessi avuto l’opportunità di proseguire avrei fatto anche quel lavoro, io ci ho anche provato, mandavo in giro curriculum ma non mi cagava nessuno, ma meglio così: preferisco prendermi la responsabilità di quello che dico io e non del prodotto che vendo.

 

Nel tuo album Prisoners 709 racconti delle tue prigioni. Hai mai pensato che la tua prigione fosse anche la tua città?

Potrebbe esserlo se inteso come essere radicati. Gli apolidi sono quelli che secondo me sono creativamente più interessanti, Zappa era uno di questi, cambiava città in continuazione ed è stato un genio della musica. Sono interessanti perché non sono campanilisti. Il fatto di essere rimasto sempre lì, nella mia città potrebbe essere inteso come prigione. Anche se non è vero perché ho vissuto anche a Milano, ho viaggiato molto, nell’arco di un anno di tour la mia prigione è il furgone. Però anche il fatto di essere attaccati al proprio territorio è un legame, qualsiasi legame potrebbe rappresentare una forma di prigionia, però dipende sempre da cosa c’è sull’altro piatto della bilancia. Io nella mia città sono tranquillo, è una città in cui sono nella più totale normalità, esco, faccio la mia vita, ho il mio studio…

Quindi il fatto di vivere in una città con i limiti oggettivi che può avere un cittadino del sud, non ha costituito per te un’arma a doppio taglio?

Ho capito con il passare degli anni che le cose importanti sono altre. Quando ero a Milano potevo vedere tutte le mostre del mondo e le ho viste. Ho visto ogni giorno delle cose fighissime, lo stare lì mi ha fornito gli strumenti per vedere le cose da un punto di vista genuino. Lì se vedi una persona che si fa le lampade non ci fai caso, a Molfetta col sole che c’è vedi un paradosso; anche per come vengono festeggiati i matrimoni o le lunghe tavolate, in questo trovo qualcosa che io non amo affatto, perché non mi ci ritrovo. Come quando dicono «i contadini di una volta quelli sì che sapevano come vivere». Non è vero niente, in realtà erano superstiziosi a volte misogini. Sono critico verso tutto questo tessuto culturale che vivo, allo stesso tempo stando a Molfetta ho sviluppato questa criticità. Se avessi vissuto a Milano non lo so come sarei diventato. Diciamo così, del futuro non vi è certezza… ma se in questo momento dovessi fare la scelta di andar via da Molfetta non ci sarebbe alcun problema! Ho anche individuato delle zone in cui mi piacerebbe vivere, tipo la Scandinavia.

 

Nel tuo ultimo album hai ribadito il tuo modo di interpretare la religione…

Ecco, se non fossi stato di Molfetta difficilmente avrei avuto questo contrasto con la religione perché lì è estremamente presente, ti porta i sensi di colpa, ti fa vivere male, tutte cose che devi superare perché te le impartiscono da piccolo e non hai la razionalità per combatterle, come se il tuo sistema operativo venisse subito inquinato. Quindi man mano devi liberati, imparando a crescere con una barriera razionale che io mi sono costruito.

 

Raramente nelle tue canzoni parli d’amore. Come interpreti questo sentimento? Perché non lo canti mai?

Preferisco tenerlo fuori. Non voglio metterlo sullo scaffale, ci sono delle cose che non tocco. In questo album un po’ mi sono aperto ma è stato faticoso per me. Chi mi vede sul palco pensa che sia un egocentrico, un caotico, in realtà sono tranquillissimo. Ho questo timore reverenziale verso qualcosa che è solo mio, non condivisibile ma soprattuto non monetizzatile.

Cosa pensi della scena Trap?

Non è musica nata per piacermi perché comunica a ragazzi molto giovani, che cercano un’identità e quasi sempre quando un ragazzo molto giovane cerca un’identità deve in qualche modo demolire l’identità precedente e quindi la generazione precedente. All’interno del calderone che comunque ascolto ma non è detto che debba piacermi, ci sono delle cose interessanti, Rkomi mi piace perché a differenza di tanti suoi altri colleghi non è fossilizzato con degli argomenti che non riesco a sentire, come l’opulenza, l’avercela fatta o cose come io sono migliore di te, argomenti tipici del rap, io lo trovo più poetico, anche se fatico a trovare una linea narrativa ma forse proprio questo mi interessa. Anche Rino Gaetano non aveva una linea narrativa, sono come degli input e questo mi piace.

 

Questo album è meno politico rispetto agli altri, ai tuoi concerti ho sempre visto sventolare bandiere notap, notriv, nocarbone. Cosa pensi della Tap, il tanto discusso gasdotto che verrà costruito in Puglia?

Io sono stato uno dei primi firmatari contro la Tap. Mi schiero a favore delle persone che cercano di dare un’informazione contraria a quella generale e che non hanno la possibilità di farsi sentire. Esiste il movimento NOTAP? Andiamo a sentire cosa dicono almeno. Se fanno un’intervista a me io posso avere delle opinioni ma quelli che ne sanno davvero sono loro, quindi io non faccio altro che supportare queste realtà. Da una parte ci sono sistemi massimi che hanno una potenza mediatica fortissima e dall’altra ci sono loro, dei ragazzi che devono barcamenarsi per dire la loro. Io sposto l’attenzione in quella direzione.

 

E i novax?

Io non credo che abbiano ragione. Io mi sono appassionato ai debunker, loro si occupano di fatti, molte persone che si occupano di opinioni tendono a scambiare le opinioni con i fatti. Faccio fatica nella mia logica ad essere contro i vaccini. Io sono vaccinato e non ho avuto nessuna delle malattie per la quale mi sono vaccinato, ho 43 anni e vivo benissimo, tante persone che conosco hanno avuto la mia stessa sorte e è già un buon punto di partenza, esistono adesso autistici nei Paesi in cui non ci sono vaccini? Bisognerebbe fare un’indagine di questo tipo. Nell’epoca di internet queste opinioni nate da scambi di mail o paure finiscono col diventare fatti. Poi abbiamo persone che si schierano apertamente contro i vaccini che sono preda di bufale, non so… È come quando uno ti dice: «Figurati se non esiste la cura per il cancro, tu che ne sai?» Allora io dico o esiste me la fai vedere oppure stiamo parlando della teoria di Russell, che dice che c’è una teiera nello spazio.

 

Se avessi un Salvini di fronte a te cosa gli diresti?

Di cambiare il suo account su twitter perché si chiama Salvinimi e sembro io Salvemini, già il mio canale si chiama Capasound e sembra Casapound… Più di questo non posso dirgli.

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