Che paura, Sofia Viscardi!

La diciannovenne milanese, senza saperlo, ci spiega con un libro e un film perché le donne italiane guadagnano meno degli uomini.

Quando non si ha bisogno di presentazioni, di solito, è perché si fa affidamento ai numeri: Sofia Viscardi (Milano, classe 1998) conta oltre 200mila seguaci della sua pagina Facebook, 902mila followers su Twitter, più di un milione e mezzo su Instagram, quasi 750mila iscritti al suo secondo canale YouTube, dove è approdata nel 2014 appena sedicenne ma con una carriera da vlogger di ben tre anni.

Chi sono queste dozzine di migliaia di fans?

Ce lo dicono le visualizzazioni: 60mila per l’incontro tra Sofia e il Presidente Mattarella il 29 gennaio scorso; poco più di 200mila quelle all’intervista di Saviano durante il Wired Next Fest del 2015. I numeri si alzano vorticosamente per il video “Quando ho abbracciato Harry Styles!” di tre anni fa, quasi un milione di riproduzioni – e più del doppio per “Con chi sono fidanzata?” in cui pone a Michele Bravi e Alberico De Giglio cinque domande su se stessa.

“Sofia Viscardi riuscirà a truccare Alberico?” sul canale di quest’ultimo, è a quota 1.785.000.

Il libro d’esordio di Viscardi, “Succede”, pubblicato da Mondadori nel 2016, vende 40mila copie in meno di un mese. In questo momento si dice sia vagamente «oltre le 100mila», per cui era doveroso che il nuovo Gattopardo d’Italia si tramutasse in pellicola per il grande schermo. Dirige l’esordiente Francesca Mazzoleni (Catania, classe 1989), fotografa e regista candidata, nel 2015, al Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio con “Il premio”.

Il film, salpato lo scorso giovedì 5 aprile nelle sale italiane, si apre con la protagonista davanti alla libreria della sua cameretta, strabordante di volumi Adelphi; si chiama Margherita e abita a Milano: c’è da aspettarsi quindi che sia stata ribattezzata “Marghe”; invece, vai a capire perché, la chiamano tutti “Meg”. Si descrive «insicura, goffa, introversa e piena di difetti», mentre gli altri le ripetono continuamente che è speciale.

Gli crediamo sulla parola perché nei successivi novanta minuti non ci viene dimostrato: quando non si «rifugia nella musica con cui ama sognare», Meg, adolescente 2.0, riscrive l’ordine tra lo strumento e il suo fine e tiene un diario attraverso registrazioni vocali sul suo cellulare (impeccabili anche quando è sbronza; non è un caso che faccia capolino la serie “Tredici”), mentre invece Instagram lo usa dal computer. I migliori amici di Meg «o sedicenti tali» (cit. Franca Leosini) sono la bionda Olimpia (ma la chiamano “Olly”) e Tom (che parrebbe chiamarsi proprio Tom), con i quali frequenta anche il liceo.

Dove un giorno, col primo espresso da Roma, compare Sam, cugino di Olly, che subito butta gli occhi sulla giovane mora e che conquista attraverso concerti di band indie, romanzi sulla filosofia da 550 pagine e caccie al tesoro notturne nel parco di CityLife. Ma, ci verrà svelato da Max a un certo punto, «l’amore non è semplice»: e infatti la storia tra Meg e Tom subisce subito un tracollo per colpa di un apocalittico segreto.

Il Max di cui prima sarebbe un trentatreenne, grazie al quale apprendiamo che i nostri eroi ne hanno appena quindici: viene infatti detto a un certo punto che «ha diciotto anni in più di noi».

La differenza d’età diventa un problema quando, dopo averlo conosciuto in chat, Olly comincia a uscirci mentre i genitori sono all’oscuro di tutto e gli amici, o sedicenti tali, hanno altro a cui pensare: intanto che Sam guarda sfegatato le partite della Roma, infatti, Tom cerca di imparare un’altra lingua col sogno di trasferirsi in Sudamerica, lavora part-time come cameriere per racimolare i soldi che gli serviranno laggiù, costringe la gang a guardare la TV iberica per fare pratica con lo spagnolo.

Le due protagoniste nel frattempo restano a casa a parlare a turno di Max e di Sam, vanno all’Oviesse a comprare vestiti per uscire con Max e con Sam, allevano un coniglio che si chiama Sam e studiano in una sola scena (o fanno finta, per alzare gli insight delle Stories): non c’è traccia di un interesse personale che non sia il maschio, né di un progetto futuro. Sono giovani, sono troppo impegnate a vivere il presente: ma il presente lo vivono all’ombra degli uomini, senza i quali non avrebbero argomenti di conversazione.

“Succede” non passa allora il famoso test di Bechdel, nato negli anni Ottanta, per il quale in un film ci devono essere almeno due personaggi femminili di cui viene detto il nome, che devono parlare tra loro almeno una volta, e che non devono parlare tra loro di uomini. Due dei tre soli personaggi femminili della pellicola di Mazzoleni di cui sappiamo nome e nick (l’altra è Stefania) parlano sì tra loro, più e più volte: ma solo del cugino, dell’amico, del fidanzato o dell’ex. E se “Tomb Raider”, nonostante prometta femminismo, ci riesce di striscio grazie alla prima sequenza, sorprende che “Succede” fallisca miseramente essendo stato diretto, a differenza di Lara Croft, da una donna – e pure giovane.

Purtroppo non è insolito tra i film sugli adolescenti, sempre a prevalenza maschile. Tra i titoli più recenti infatti solo “Classe Z” – sebbene ci fossero solo due studentesse tra gli otto alunni – vinceva l’ardua impresa. Mentre per un pelo (…) non riesce “Piuma”, e perde pure “Gli sdraiati”, regia di Francesca Archibugi, ché ruota tutto attorno a Tito e alla «banda di froci» con cui scorrazza verso un’adolescenza da mani nei capelli.

La madre di Tito non compare mai, la fidanzata si esprime a sillabe autoconclusive, la madre della fidanzata è l’unica che spiccica parola – ma solo con altri uomini. Sembra incredibile quindi che nel programma televisivo condotto dal padre di Tito, Claudio Bisio, compaia Donatella Finocchiaro nel ruolo della Presidente (o Presidentessa?) Barenghi, carica dello Stato femminile che in diretta nazionale parla della disuguaglianza di salario tra maschi e femmine a parità di impiego.

Il film è del novembre scorso, ma la storia è quanto mai attuale: sebbene ci ritroviamo il Parlamento «più rosa della storia repubblicana», l’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, a fine marzo 2018, registra che la ricchezza netta individuale degli uomini è superiore del 25% rispetto a quella delle donne, gender gap che cresce all’avanzare dell’età e che raggiunge il 50% tra le coppie sposate.

Senza contare la disoccupazione, dato che il tasso di impiego femminile italiano in Europa è superiore solo a quello della Grecia.

Sarà forse arrivato il momento di insegnare alle nostre figlie a cambiare le lampadine? Il passo verso i circuiti in parallelo poi sarebbe breve.

Stando sempre alle parole di Viscardi, pare che le adolescenti di oggi siano buone solo a consultare l’oroscopo: a pagina 50 del nuovo libro, “Abbastanza”, ancora rigorosamente edito da Mondadori, uno dei tanti personaggi virili, Emilio, racconta che a Cate non «piace parlare di cose da maschi come calcio, PlayStation, sport, eccetera, ma sa dare buoni consigli su tutta la parte sentimentale della vita, nella quale noi maschi facciamo schifo». E poi, appunto, «non la smette un secondo di parlare […] di tutto ciò che concerne il mondo dei segni zodiacali, è in fissa totale con dei libretti che compra in cartoleria dedicati interamente a ogni segno e a tutte le sue caratteristiche».

Due pagine prima, Emilio e quindi Viscardi ci avevano già illuminato su un altro deficit del gentil sesso; ancora a proposito di Cate dice infatti il ragazzo: «mi fa sempre copiare durante le verifiche di quelle materie che un maschio come me non potrà mai imparare e io la aiuto con matematica».

Nonostante di cervello a scuola se ne studi uno solo, l’annoso cliché vuole che le donne siano «più portate» per le materie umanistiche – così come si dice che alcuni sono grassi «per costituzione»

. I volumi di antologia delle Elementari allora si popolano solo di maestre. “Educazione sessista”, saggio cruciale di Irene Biemmi, riproposto da Rosenberg & Sellier lo scorso dicembre, analizza un campione di dieci libri di lettura della classe quarta di alcune delle maggiori case editrici italiane (De Agostini, Il Capitello, La Scuola, Giunti, Piemme, Raffaello, Fabbri…) mostrando cavalieri senza macchia, scienziati, astronauti, piloti, esploratori della natura e madri dolci e affettuose, casalinghe felici, streghe e principesse bionde, vestite di rosa, educate e servizievoli.

L’unico lavoro che svolgono le protagoniste dei racconti per l’infanzia è, appunto, quello della maestra: tutte le altre competenze parrebbero essere solo degli uomini. Sarà forse che il divario di stipendio tra maschi e femmine sia una conseguenza anche del diversissimo ruolo sociale che i due sessi occupano nelle storie per bambini e ragazzi? Perché ai maschi diamo prospettive ambiziose (il pilota, il calciatore) e alle femmine l’utopia leziosa (le fate, le principesse)? “La Lettura” di domenica scorsa, 8 aprile, comunica che “Abbastanza” è all’ottavo posto, in salita, tra i romanzi italiani più venduti nel Paese.

Al secondo e al quarto della classifica generale ci sono, invece, i due volumi delle mal scritte “Storie della buonanotte per bambine ribelli”: si spera che le lettrici di oggi non finiscano come le precedenti: cresciute a pane e belle addormentate, sono tuttora a casa ad aspettare che un messo comunale bussi alla loro porta col calzascarpe.

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