Obbligo o verità? Piuttosto, la morte

Un manipolo di post-adolescenti (interpretati, come di consueto, da attori con trent’anni per gamba) festeggia l’ultimo spring break della vita facendo passa e spassa, avanti e indietro, per il confine messicano: in barba al muro che nessuno vuole pagare! La comitiva Benetton – mista per generi, etnie e orientamenti sessuali – riesce a convincere a partire pure la mascotte del gruppo, la precisetti Olivia: una a cui il Cielo ha donato solo pregi, nessun difetto, devozione per il prossimo, tanta nobiltà d’animo e la taglia 42. Strappata al volontariato che costantemente pratica su YouTube, Olivia parte nascondendo(si) la cotta per Lucas, fidanzato con la sua migliore amica, che intuiamo al minuto 7 grazie al montatore più che al regista – e a questo punto ci sarebbe da domandarsi perché stiamo parlando di questa ciofeca di film quando potremmo fare una bella lezione sui mestieri del cinema.

Una sera agli sgoccioli della vacanza, in una discoteca della Playa, Olivia riesce a impedire l’ennesimo tradimento della BFF alle spalle del ragazzo (e non alle spalle in senso figurato, ma proprio dietro allo schienale della sedia su cui è seduto): è per questo, allora, che l’amica Markie l’ha portata laggiù? Per farle da badante? Al dilemma esistenziale Olivia pensa, rimasta sola, al bancone del bar: prima di ritrovarsi a sopportare le angherie dell’immancabile compagno di scuola idiota, che compare lì più per caso che per desiderio, probabilmente teletrasportatosi o riprodottosi per partenogenesi: i dilemmi diventano due e cominciano ad essere troppi, per i nostri protagonisti. Mentre lo scemo parla, la salva uno sconosciuto, difensore del femminino sacro e amabile conversatore – e quando poi si riunisce l’intero branco di amici, lo sconosciuto propone: scaliamo un colle in piena notte e giochiamo a “obbligo o verità” in una chiesa fatiscente, priva di illuminazione elettrica, il cui portone magari è aperto e con qualche sdraio nella navata? Quello che il giovane (…) omette è che il gioco è posseduto da un demone e tre sono le regole da rispettare: se non dici la verità, muori; se non rispetti l’obbligo, muori; se smetti di giocare, muori. Il massacro dura una manciata di giorni, durante i quali nessuno dorme, mangia né fa la doccia: ma talmente alto è lo shock che evidentemente né i peli né le barbe sembrerebbero crescere, né i trucchi colare: nessuna necessità fisiologica necessita di essere espletata. Colpo di scena: il bono-del-gruppo, ovviamente troppo sicuro di sé e quindi irruente, muore praticamente subito e senza aver avuto mai l’occasione di togliersi la maglietta, nemmeno in una scena. Il vero brivido però, abaco alla mano, è scoprire che contando i partecipanti si arriva a quota dieci, and then there were none.

Non ricordo che qualcuno abbia mai lanciato l’hashtag #JeSuisAgathaChristie, ma evidentemente qualcuno ci ha creduto a prescindere. Sia chiaro: un conto è che la BBC decida di produrre l’ennesima versione di Dieci piccoli indiani, in una miniserie da tre episodi, diretti tra gli altri da Craig Viveiros; un conto è che Jeff Wadlow, che non ne ha azzeccata una finora, si creda regista produttore e sceneggiatore di successo. Ma a Jason Blum cosa importa? Il produttore dalle uova d’oro di Split e Get out avrà comprato così tante ville con piscina in questi due anni che la domanda «dove passerò le vacanze?» è sicuramente più impellente di «produco un altro teen horror?». Peraltro la stampa gli aveva già stroncato Auguri per la tua morte, poco meno di un anno fa, e il produttore dalle uova d’oro ha imparato che gli scivoli nelle piscine delle ville non si comprano con le recensioni bensì coi biglietti strappati al botteghino: si sfrega le mani, quindi, per aver speso 3 milioni e mezzo di dollari per questa grandissima ciofeca e averne incassati, per ora, più di 85 milioni nel mondo.

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