Incontrare ciruzzo e non parlare di Gomorra

Prima di recitare e prima di diventare la star di Gomorra, Marco D’Amore era un musicista. Strumenti a fiato. Poi è successo che la vita gli ha messo di fronte delle possibilità e la passione per la recitazione si è presa sempre più spazio.

di Silvia Rossi

«Io mi attribuisco solo il merito di aver capito abbastanza in fretta di voler fare di questo lavoro la mia vita e di aver corso dei rischi per farlo». La sua svolta è stata dopo l’incontro con Toni Servillo, ha cominciato a lavorare con lui dopo il liceo, è stato in tournée due anni e poi è andato a Milano:« In un periodo in cui non era ancora esplosa Maria De Filippi e quindi fare l’attore e andare a studiare a Milano era una follia».

Abbiamo incontrato Marco D’Amore e abbiamo parlato di teatro, musica, futuro e si, anche di Gomorra. 

marco d'amore

La musica l’hai abbandonata perché è arrivata la recitazione nella tua vita?

Si diciamo che la musica è un’amante gelosa, gli strumenti sono bastardi perché quando li lasci te lo fanno pesare. Poi io studiavo strumenti a fiato, quindi c’è una preparazione muscolare allo strumento che quando lo lasci poi ti fa male riprenderlo. Adesso continuo a suonare e a cantare anche negli spettacoli.

Dove giocavi da bambino? Dove sei cresciuto?

Grazie all’intelligenza dei miei genitori sono cresciuto in miezz a via, in mezzo alla strada. Ho avuto la possibilità di frequentarla e di capire chi c’era, di imparare a discernere, poi ovviamente avevo risposta alle tante domande che mi facevo. Fortuna che tanti altri miei amici non hanno avuto.

Cosa serve per prendere la strada giusta?

Tutto sta nelle basi, noi avevamo delle basi. Sapevamo benissimo che c’erano delle persone più sfortunate di noi che non avrebbero potuto percorrere certe strade.

A settembre sarai sul palcoscenico con American Buffalo. Raccontaci. 

American Buffalo è il primo testo di David Mamet, famosissimo autore teatrale e iper noto sceneggiatore (Gli Intoccabili). È un progetto inserito in una dedica che il Teatro Eliseo di Roma fa a Mamet e Luca Barbareschi che è il direttore del teatro e uno dei produttori di “Brutti e Cattivi”, l’ultimo film che ho girato, mi ha proposto di farne parte. Mi ha dato carta bianca su tutto e io ho voluto esagerare con la follia, tant’è che farò un testo di un autore americano, radicato nel territorio americano, in napoletano. Questa non è un’idea malsana, ma è una riflessione a cui mi ha portato Mamet, perché è un testo che racconta di ultimi, di periferia, che si esprime attraverso quello che Mamet chiama il “sound” di un certo tipo di personaggi. Mi serviva una lingua teatrale che non subisse il filtro della testa, ma che uscisse direttamente dalla pancia.

È più complicato raccontare gli ultimi? Te lo chiedo perché leggevo del tuo prossimo film con Claudio Santamaria in cui, appunto, raccontate senza pietismi né moralismi chi viene meno ascoltato. 

Questa domanda è molto difficile rispondere. Secondo me in certe condizioni di privazione c’è un’esaltazione dei sentimenti. È nella difficoltà e nella precarietà che c’è la possibilità di raccontare un desiderio di riscatto, una voglia di rivincita – e questo è il principio di Un Posto Sicuro – e nonostante tutto ci sia una vita che ricomincia e la possibilità di rimettersi in moto. A me questo interessa molto nelle storie che racconto.

marco d'amore

Parlando anche con Salvatore Esposito, che in Gomorra è Genny Savastano, mi siete sembrati molto consapevoli delle responsabilità che inevitabilmente avete nel raccontare un certo tipo di personaggi, parlo come parlerebbe lo spettatore. Cosa pensi a riguardo?

Le responsabilità hanno sempre a che vedere col nostro mestiere. Ci sono attori che fanno corrispondere al pensiero che hanno nella vita le scelte che che fanno in campo artistico, altri decisamente no. Io faccio parte della prima categoria, poi però faccio una presa di coscienza rispetto al mio mestiere e riesco a prendere una distanza, perché noi non siamo né degli educatori, politici o intellettuali. Noi costruiamo un racconto e possiamo essere un ponte che unisce la realtà e il mondo immaginario che interpretiamo, innescare critiche e riflessioni in modo tale che lo spettatore quando torna da questo immaginario viaggio possa fare le sue scelte e interrogare la realtà.

Come stacchi Marco?

Viaggio, viaggio tanto. Sono molto riservato e geloso della mia vita e quello è il modo migliore per tenermela.

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