La truffa dei Logan o di Andrea Occhipinti?

 Ha senso mandare nei cinema d’Italia un film dopo nove mesi che è uscito negli USA? Sì, se ci troviamo nel ’65; un po’ meno se, nel 2018, si dà per buono che almeno un terzo della popolazione sia in grado di fare una ricerca da cinque parole su Google.

Tant’è: il 31 maggio, dopo una sequela di rinvii, La truffa dei Logan vedrà finalmente i nostri schermi: era il 7 agosto quando veniva presentato a Tel Aviv, il 18 quando approdava nelle sale canadesi e statunitensi.

Il 26 dicembre dell’anno scorso, poi, il film è diventato un DVD: tempo quindici giorni e circolavano online, per chi sapeva recuperarle, copie in HD e sottotitolate del tanto atteso grande ritorno di Steven Soderbergh.

Eppure sembrava che già Pitch perfect avesse fatto scuola: uscito a fine settembre 2012 negli Stati Uniti, il musical acapella di Jason Moore era diventato un successo di botteghino insperato, virale su YouTube in molte sue parti, e solo dopo mesi fu acquistato e distribuito dall’Italia: dove uscì a giugno 2013, quando ormai l’aveva visto tutto il mondo ed era pure passato di moda – e in più gli fu inspiegabilmente cambiato il titolo in Voices, per cui l’effetto di straniamento non gli portò più di 123mila euro d’incasso.

Peggio di noi hanno saputo fare solo i peruviani: hanno messo il film in sala in pieno agosto, dopo più di un anno rispetto ai concittadini settentrionali, e con il titolo da querela Una loca y divertida guerra de sexos. Sbagliando, evidentemente, non sempre s’impara: perché lo scorso dicembre in America è arrivato anche Pitch perfect 3 e, dopo sei mesi, forse noi lo potremo vedere il 14 giugno.

Ma la distribuzione cinematografica è una questione assai complessa, che certamente non posso sviscerare né risolvere in cinque paragrafi. Si parta dal presupposto che allo svuotamento delle sale di cui tutti parlano e tutti sappiamo (stando all’Anica, il cinema italiano nel 2017 non è praticamente esistito) si somma un sovraffollamento di titoli fra blockbuster, fantomatici eventi di pochi giorni da 15 euro, film in unica copia che partono letteralmente in tour per i capoluoghi di regione e sequel e prequel e remake e reboot.

Se escono circa dieci film a settimana – di cui le piccole città possono vederne meno della metà – un distributore deve riuscire a trovare terreno fertile tra un episodio e l’altro di Star wars, tra le nuove Cinquanta sfumature e i consueti tre titoli annuali della Marvel, tra il remake di IT, il reboot di Jumanji e il sequel di Cattivissimo me.

Avrei lo sconforto anch’io: sapendo poi che solo Avengers: infinity war è stato proiettato su più di 900 schermi (e ci chiediamo come abbia potuto incassare 15 milioni in 15 giorni?), lanciato furbescamente tra i due Loro di Paolo Sorrentino, la domanda che sorge spontanea non è «chi andrebbe a vedere il mio film» ma «in quali cinema lo possiamo proiettare», dato che pare tutto occupato.

Se però si sorvola senza conseguenze sul binomio attesa-qualità di Pitch perfect, è un peccato invece che a rischio di rimetterci sia una sorta di buddy-movie arguto e spiritoso scritto, incredibilmente, da una donna.

Lei si chiama Rebecca Blunt e, come i personaggi della sua sceneggiatura, è nata e cresciuta nel West Virginia. Amica della moglie di Steven Soderbergh, la Blunt sapeva che il regista, Premio Oscar per Traffic, aveva annunciato il ritiro dalle grandi scene quattro anni fa (è rimasto su quelle piccole: la HBO di Dietro ai candelabri e Cinemax di The knick) e aveva inoltrato il manoscritto con la richiesta del suggerimento di un regista. «Dopo un paio di settimane» ha raccontato Soderbergh, «ho ammesso di non volere che nessun altro dirigesse».

Sarà forse per colpa di Channing Tatum, con cui Steven aveva già girato Magic Mike e sul quale l’autrice ha dipinto il suo protagonista, un uomo «comune» (è dovuto ingrassare considerevolmente per diventarlo) che negli anni del liceo ha vinto una borsa di studio per giocare a football ma che, rompendosi il ginocchio prima dell’inizio della stagione, è diventato uno

spogliarellista. Gli fa da spalla, senza un braccio, Adam Driver: più interessato a riprodurre fedelmente quell’accento che non alla trama della pellicola, al punto da assumere un’insegnante di vernacolo. I due fratelli Logan si improvvisano ladri per derubare un’organizzazione gigantesca, la NASCAR: e se il regista parla degli Ocean’s senza soldi né tecnologie, siamo altrettanto vicini alla Rapina a mano armata di Kubrick, ma con le auto al posto dei cavalli e un esito assai inverso.

Completano il cast Daniel Craig tinto di biondo, un irriconoscibile Seth MacFarlane, Katie Holmes che ogni tanto ne azzecca una e – ma non dovrei dirlo – Hilary Swank. Dice il regista: «avevo bisogno di un film commerciale con delle star che giustificassero una distribuzione capillare, in una situazione che però mi consentisse l’assoluto controllo creativo».

Per il tanto atteso ritorno sul grande schermo, infatti, Soderbergh ha sfuggito completamente le major e non solo ha finanziato il film in maniera autonoma, ma lo ha anche distribuito (negli USA) attraverso una neonata società da lui fondata, la Fingerprint Releasing. Questa è poi subito tornata a lavoro con Unsane, 26esimo titolo di finzione del regista di Atlanta, approdato sugli schermi di mezzo mondo a fine marzo e che noi vedremo – pare una barzelletta – a metà giugno: a due settimane esatte dall’uscita di quest’altro. Unsane sarà distribuito da 20th Century Fox; per i Logan invece ci pensa la Lucky Red di Andrea Occhipinti.

Le star del cinema, come dice Soderbergh, non sarebbero bastate anche a noi per vedere questo film l’anno scorso?

Il calendario del distributore era fitto fitto e ha preferito dare la precedenza a una storia ritrita come Nella tana dei lupi; gli concediamo che ha fatto bene: con due milioni e mezzo di euro in un mese, è uno dei film più visti della stagione italiana – oscurando la Tonya fresca di Oscar ma che pure a gennaio era approdata alla mercé, diciamo così, dei nativi digitali (incassi in sala: € 739mila).

Oltre al danno, la beffa: La truffa dei Logan è stato eletto, prima ancora di approdare, Film della Critica per il mese di maggio dal Sindacato Nazionale, che spiega: «Soderbergh riesce a descrivere l’attualità di una società in crisi non soltanto dal punto di vista economico, aggiornando il suo cinema apparentemente più leggero».

È la prima volta, quest’anno, che la Lucky Red ottiene questo riconoscimento: se il film fosse uscito a inizio 2018, effettivamente, sarebbe stato schiacciato dalle grandi recensioni della stagione dei premi; prima delle vacanze di Natale avrebbero avuto la meglio i film di Venezia e, prima ancora, quelli di Cannes. Calendario alla mano, allora, vuoi vedere che la pellicola non poteva uscire in un mese e in un giorno migliori? E anche questa volta: bravo Andrea.

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