La Fashion Week milanese che ha visto sfilare in passerella le collezioni moda donna per la fall winter 2018/2019, ha fatto riflettere.
Due i filoni che ci hanno condotto per tutti i sei giorni a un impatto immediato, suddiviso tra minimalismo e colori pop, coerente con le sfaccettature che caratterizzano ogni singolo marchio e designer e lasciando libero spazio anche a ispirazioni stilistiche divise tra anni 80, motivi animalier ed etnicismi quasi esasperati.
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Non sembrerebbero esserci vie di mezzo.
O si punta su tonalità basic quali il cammello, il panna, il grigio, il nero e persino il turchese, come nelle camicie a collo alto di Lucio Vanotti, per collezioni più classiche, spesso maschili, sensuali e mirate alla pulizia delle linee e forme, spesso sdrammatizzate ma pur sempre equilibrate, come nella sfilata di Jil Sander, Laura Biagiotti, Ermanno Scervino, Krizia, Tod’s, Atsushi Nakashima, Erika Cavallini e Gabriele Colangelo, o ci si proietta verso un mix and match che gioca con colorazioni forti e accesi, quali il giallo, il rosso, il blu elettrico, il verde e il viola, costruendo sovrapposizioni e presentando volumi over size, come nel caso di Marni, Simonetta Ravizza, Versace, Marco De Vincenzo, Vivetta, Emilio Pucci, Christian Pellizzari e Albino Teodoro.
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Ma nonostante delle sfilate che ci hanno fatto innamorare e spesso ci hanno anche fatto dire no, una domanda è sorta spontanea facendoci apprezzare ancora di più nomi quali Cristiano Burani, Gucci, Tommy Hilfiger, Calcaterra, Giorgio Armani, Moschino, Etro e Alberta Ferretti, per delle collezioni spesso non commerciali, difficili ma ancora capaci di fare show, di emozionare e di farci pensare che forse il fashion system stia imboccando una strada di non ritorno.
Dovremmo allora rassegnarci e rinunciare a quegli spettacoli che negli anni Settanta hanno reso la moda un’opera d’arte?
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